I campanacci sardi per il bestiame al pascolo si realizzano grazie a un lungo e ancestrale processo di lavorazione manuale
La prima cosa è il fragore – un rumore di martellate metallico e assordante, continuo e cadenzato, che dal laboratorio risuona sulla strada. La seconda è un dipinto sul muro esterno appena prima dell’ingresso, due grossi campanacci in ottone sormontati da una pecora stilizzata che si allontana e da una scritta, “Campanacci Floris”.
Siamo a Tonara, comune di meno di 2000 abitanti nella regione montuosa della Barbagia, in Sardegna: qui – e solo qui in tutta la regione – attraverso un processo completamente manuale vengono creati ogni anno migliaia di campanacci per bestiame, destinati ad agnelli, pecore, capre, bovini e cani da caccia, ma anche indossati quali parti di maschere sarde come Mamuthones e Merdules.
Un lavoro, quello dei sonaggiargios, che a Tonara ha avuto inizio alla fine dell’Ottocento, arrivando a coinvolgere a metà del Novecento una dozzina di nuclei familiari. Oggi, a proseguire, sono rimaste solo le stesse due famiglie che tra le prime avviarono questa tradizione artigiana e musicale, i Floris e i Sulis, ultime a custodire, secondo una leggenda sarda molto cara agli artigiani, “un’arte antica data dagli dei direttamente al popolo dei monti”.
Un’attività artigianale da quattro generazioni
“Ogni campanaccio ha la sua voce, proprio come le persone”. A raccontare è Marco Floris, titolare dell’attività insieme al fratello Salvatore e al padre Ignazio. “A iniziare fu nostro bisnonno, noi siamo la quarta generazione. Questo è l’ambiente in cui ci muoviamo: pochi metri quadrati, per creare tutto questo”, racconta accogliendomi nel laboratorio, due stanze dalle pareti annerite con pochi strumenti essenziali. “Noi continuiamo a martellare” sorride Ignazio – lo sta dicendo a me per scusarsi del frastuono, ma è anche una frase che racconta ciò che la famiglia non ha mai smesso di fare a Tonara dalla fine dell’Ottocento: “Io in questo mestiere ci sono nato”, prosegue Ignazio. “Sono qui fisso dal 1978, aiutavo mio padre in bottega. Prima di lui era mio nonno a produrre i campanacci, che andava a vendere come ambulante attraverso la Sardegna”.
Di quell’attività itinerante, portata avanti “a caldu e frittu” (con il caldo e con il freddo) e per poco guadagno, resta una traccia nella composizione S’ambulante tonaresu, del poeta dialettale tonarese di fine Ottocento Peppino Mereu. Leggere la poesia restituisce le prime fasi di un mestiere di cui tuttavia, a fronte dell’assenza di attestazioni scritte, è difficile ricostruire le origini, una datazione precisa e soprattutto le ragioni che lo legano a Tonara.
La produzione di campanacci non si ferma mai
La sua eco si propaga e rinnova però ancora nei suoni forgiati ogni giorno nel laboratorio. Marco Floris si avvicina a uno dei macchinari: “Sono tutti obsoleti, ma efficaci: questa tagliatrice è degli anni ’70, la pressa degli anni ’80. Volendo, potremmo innovare l’azienda, ma non avrebbe senso: il nostro è un prodotto che suscita interesse perché artigianale. Quando esce da qui, un campanaccio ha già venti lavorazioni, un’accordatura, una storia”.
Alla parete sono appese decine di campanacci di diversa forma – tonda, quadrata e lunga, ognuna poi proposta in una dozzina di lunghezze: “In un anno ne produciamo dai 25 ai 30mila. Dalla Sardegna vanno ovunque, in tutta Italia e all’estero. In passato il laboratorio non copriva mai l’intera annata: oggi produciamo campane tutto l’anno, dalla mattina alla sera, per essere sempre pronti con tutte le tipologie possibili”.
Come si realizza un campanaccio tradizionale sardo
Il procedimento per la produzione dei campanacci si ripete quasi invariato da decenni e include più di venti fasi. La base di partenza sono sottili lamiere di ferro grezzo, che vengono tagliate con sagomature diverse: “Non si tratta di differenze estetiche, ma sonore. Le forme ottenute sono infatti utilizzate su varie morfologie di terreno: per le capre, che pascolano in zone montuose, si scelgono ad esempio forme lunghe, perché è necessario un suono che possa valicare la montagna e che il pastore possa sentire anche a grande distanza. Per capi che non hanno necessità di allontanarsi più di tanto, come le pecore, vengono preferite forme tonde, le cui melodie allietano il pastore”.
1/ Lavorazione manuale
La lavorazione manuale ha una grande importanza: “È determinante affinché i campanacci non siano mai esattamente identici e suonino quindi diversamente tra loro, quel tanto che basta al pastore per riconoscere l’assenza di uno di loro quando il gregge o la mandria si muovono tutte insieme, suonando come un’orchestra. Se in quel suono totale non c’è un animale, il pastore si accorge subito della mancanza della nota emessa dal suo campanaccio”.
2/ La lamiera viene bombata
La lamiera viene poi bombata – un tempo battendola fino a ottenere la curvatura cercata, oggi tramite il passaggio in una pressa – e passata nel fuoco, così da renderla più malleabile per procedere alla chiusura del campanaccio. Un passaggio delicato, supportato anche dall’uso di incudini differenti: “Le abbiamo create noi in base alle nostre esigenze: non le vedrai da nessun’altra parte”, spiega Marco Floris. È la completa chiusura del campanaccio a dare origine alla cassa acustica, permettendo il rilascio delle prime vibrazioni e l’avvio delle ricerche sonore.
3/ Creazione dei fori
“Il passaggio seguente è la creazione dei fori per l’arco esterno. Utilizziamo un macchinario ideato da noi, anche se le personalizzazioni restano molto frequenti”, prosegue. “Ogni luogo dove esista bestiame ha una propria tradizione locale anche per quanto riguarda le campane e il loro uso, dalla Sicilia alla Basilicata, fino alla Slovenia e alla Romania. In Sud Italia si utilizza spesso il collare in legno, in Sardegna preferiamo quello in cuoio. In Corsica lo richiedono strettissimo, perché inseriscono una clip di ferro di chiusura. In Macedonia, creano campanacci rotondi con una pallina sonora all’interno, in Asia e Africa un campanaccio che al suo interno ne contiene un altro. Questo sta anche a rappresentare quanto il campanaccio sia uno strumento fondamentale in tutte le culture. Pensa a quando chiedi a un bambino di disegnare una mucca: persino nell’immaginario dell’infanzia, il campanaccio è sempre presente”.
Il campanaccio, quindi, è uno strumento che identifica l’animale e permette al pastore di sentirlo, fondamentale però anche per consentire all’animale stesso di orientarsi e di identificare gli animali del proprio gregge o della propria mandria.
4/ Ottonatura
“I nostri campanacci vengono scelti perché siamo tra i pochi ad averne fatto un lavoro, con una produzione costante, ma soprattutto per la nostra lavorazione, che è unica al mondo”. Marco Floris si riferisce all’ottonatura: una tecnica ancestrale, che prevede l’inserimento dei campanacci e di una piccola grammatura di ottone all’interno di crogiuoli di grafite. Quelli attualmente in uso nel laboratorio appartenevano al nonno di Marco e Salvatore e provengono da una fonderia tedesca: una volta chiusi con argilla e posti sul fuoco a oltre 1000 gradi, permettono all’ottone di fondersi, penetrando all’interno del ferro grazie a un movimento rotatorio. Dai crogiuoli incandescenti escono così i campanacci ottonati, riconoscibili dalla colorazione dorata: “Il suono diventa cristallino, ottiene una nuova voce. È un’attrazione chimica tra metalli, ma è anche una magia. Forse si tratta di un’eredità rurale, tipica della Sardegna. L’età nuragica è stata florida di esperti nella lavorazione del metallo: noi, essendo radicati in un’area interna, non facile da raggiungere e lontana da contaminazioni, abbiamo mantenuto una lavorazione antica, dura e pura”.
5/ Accordatura
È a questo punto che è possibile procedere all’accordatura: una fase di ricerca del suono desiderato, durante la quale la bocca del campanaccio viene allargata o ristretta per modificare la nota emessa, unendo al sapere artigiano profonde conoscenze rurali. Nella scelta, i pastori sono tutt’oggi aiutati dagli esperti accordatori: “Sono pastori di una certa età, che conoscono bene il territorio e le aree di pascolo e che per questo sanno valutare se un dato campanaccio sia adatto o meno per quella zona della regione o del paese. Noi ci tramandiamo di generazione in generazione un sapere manuale e artigianale: i pastori fanno lo stesso e, accanto all’orario a cui mungere il bestiame, si tramandano anche i suoni stessi. È difficile che le tipologie di campane vengano cambiate: noi nasciamo, cresciamo e moriamo, ma la morfologia del terreno non cambia. Così, non cambiano nemmeno i suoni che attraversano le diverse aree della regione: se le mucche pascolano sul Gennargentu, quello è il territorio da conoscere. E che tiri Tramontana o Maestrale, il pastore deve sempre sentirle”.
Il suono di una Regione, di un territorio e di un popolo
Ad essere circondato da campanacci in ogni angolo della bottega è anche Carlo Sulis, che da venticinque anni prosegue il lavoro del padre Tonino e ancora prima del nonno nel laboratorio di famiglia – un ambiente molto simile a quello dei colleghi, in cui foto alle pareti e macchinari datati accompagnano la creazione quotidiana delle campane. In una video-intervista del 2015, dopo aver spiegato i passaggi della produzione, Sulis concludeva così: “Il suono del campanaccio del nostro paese va lontano, come sono lontane le origini del campanaccio stesso”.
Una consapevolezza che ho sentito anche in una frase che mi ha detto Ignazio Floris – udibile a fatica nel frastuono della produzione: “Il nostro territorio ha il rumore degli animali, della vegetazione, del vento. Il suono dei campanacci completa quello dell’isola: attraverso il nostro lavoro, noi diamo voce a un territorio”.