Nel buio della roccia che fu sede di lavoro, sudore e fatica per tanti minatori
Isola d’Elba –“Il cavatore la miniera ce l’ha dentro. Potrebbe fare il cuoco, il giardiniere, qualunque altra cosa, ma un cavatore non sa fare altro. Sa stare in miniera e cava…chi se lo prende?”, dice Filippo Boreali, classe 1940 e trent’anni di vita nella miniera del Ginevro, nelle viscere dure di un’isola magica come l’Elba.
Conosciuta fin dall’antichità per i giacimenti di ferro, il “minerale celeste” per gli egizi e “sideros” per i greci, l’Elba veniva chiamata dagli etruschi l’isola dei mille fuochi. La storia da qui è passata, neanche troppo silenziosamente, e ha lasciato tracce nella letteratura (Virgilio, Plinio), nel potere (le Repubbliche Marinare, Napoleone), segnando il passo per una visione moderna della siderurgia.
E qui l’industria pesante ha organizzato l’estrazione del ferro elbano. Magnetite, pirite, che costituiscono la base dell’acciaio. Uno degli acciai migliori al mondo. Col passare degli anni, la fatica e i sacrifici di tanti cavatori, si sono realizzate, dagli anni Sessanta, anche conquiste sindacali e riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Perché sotto quest’isola così bella scavare era “lavoro duro e pericoloso, sacrifici e paghe misere”.
Filippo Boreali ha lavorato nella miniera del Ginevro dal 1960 al 1987: è stata chiusa nel 1981, ma lui, con altri colleghi, è rimasto in servizio fino alla chiusura definitiva del pozzo. La miniera del Ginevro fa parte del complesso delle miniere di Capoliveri, che si trovano nel cuore del Parco Nazionale Arcipelago Toscano, sul Monte Calamita, così chiamato proprio per la magnetite, minerale di ferro presente in grande quantità in questa zona.
Chiedo a Filippo se non gli costava chiudersi al buio, a -50 metri sotto il livello del mare, dopo essersi riempito gli occhi del mondo che lasciava in superficie. Mi guarda sorridendo e risponde che “il pane lo dovevi portare a casa e che, per suo padre, anche lui cavatore, era peggio. Chilometri di sentieri stretti e pericolosi percorsi di notte per arrivare alla mina e poi sotto, al buio, fino a tardi…usciva e tutta quella luce non la vedeva mai!”
Forse questi luoghi incantati, spruzzati di mille colori dalla natura, sono un privilegio per pochi.
“Il cavatore lavorava col cottimo e, per tenere il ritmo, trascurava fatica e sicurezza. Il mio primo impatto con la miniera vera fu questo”, continua a raccontare. “Cavavo e rischiavo la pelle. Il momento più pericoloso era quando dovevi posizionare le mine e innescarle una per una. Dovevi dare la fiamma e poi correre veloce, via. Sperando tutto andasse per il verso giusto: le micce accese, la parete in piedi e tu … ultimo anello della catena a farti il segno della croce”.
E nelle gallerie del Ginevro, quelle più grandi e con la maggiore produzione di magnetite d’Europa, fino a -54 metri sotto il mare, molti devono essersi affidati a Dio o forse lo hanno nominato invano. Infatti nonostante negli anni Settanta fosse considerata una delle miniere europee più moderne per la “coltivazione” della magnetite (minerale ricco di ferro), arrivare a questo punto, non fu indolore.
Scoperta la vena ai primi del ‘900, ha iniziato a essere sfruttata negli anni Trenta: gallerie scavate tutte a mano in pendenza e con i piedi nell’acqua fangosa, non quella del mare “blu” di Capoliveri.
Ricorda, Filippo Boreali, i giorni delle conquiste. La scuola “in sotterranea” per i minatori, la dotazione di maggiori protezioni e sicurezza, lo sviluppo tecnico. E poi la sala dove i cavatori mangiavano, scavata nella roccia a quota -6, tinta di bianco. “Ti sembrava di essere fuori, alla luce del giorno, in confronto ai 50 metri sotto terra. E nonostante siano passati tanti anni la fame mi viene sempre alle 11. La fame della miniera”.
Sorride e guarda lontano. Verso la miniera del Ginevro e ciò che ne resta. È difficile immaginare che tanto di quello che oggi si vede in quest’isola sia nato anche dalle fatiche e dai sacrifici di questa gente. Se vai giù alla mina, oggi parco minerario di altissimo valore didattico (visitabile prenotando una visita guidata), ti rendi conto di cosa sia stato il lavoro nei secoli passati e di come le conquiste lo abbiamo potuto migliorare e, in alcuni casi, far scomparire.
Ecco gli enormi manufatti arrugginiti e pericolanti, stridono al vento, sembrano lanciare un richiamo affinché l’operosità umana ritorni. La vecchia miniera del Ginevro sembra un grande animale che non vuole morire. Una leggendaria sirena che ancora chiama con i suoi cigolii, alimentati dal vento, il carico di uomini che l’hanno fatta vivere. Troppo presto è stata chiusa e nella sua pancia ha ancora moltissimo di quel tesoro per cui tanta gente ha vissuto e ha anche perso la vita. L’industria dell’acciaio cerca mercati più concorrenziali e l’industria del turismo trova nuovi sbocchi sull’isola più “dura” dell’arcipelago toscano.
“E un cavatore chi lo prende?” Ha ragione Filippo. Il minatore ha la roccia nel sangue, la roccia è la sua sicurezza. Lui che la miniera ce l’ha anche sul biglietto da visita. “E pensa, dice, che quando muore, non vuole che si scriva sulla tomba che fu cavatore.”
Forse, penso ingenuamente, perché se ne torna a casa, sottoterra tra le rocce.