Verso il carnevale di Mamoiada, uno degli eventi più celebri del folclore sardo

Mamoiada (Nuoro) – Mentre Daniele Mameli racconta, dietro di lui ci osservano decine di volti. Siamo a Mamoiada, antico centro a 650 metri di altitudine nel cuore della Barbagia, regione montuosa della Sardegna centrale estesa sui fianchi del Gennargentu.

Fuori dal laboratorio in cui ci troviamo è appesa l’insegna “Mastru de viseras”, che in dialetto sardo significa “Maestro delle maschere”: è in questo luogo, tra pezzi di legno e scalpelli, che Daniele Mameli scolpisce le maschere dei Mamuthones e degli Issohadores, figure del carnevale mamoiadino diventate nel tempo un simbolo della Sardegna e delle sue tradizioni più arcaiche e arcane. Volti enigmatici, dalle origini incerte, che Daniele crea per i propri concittadini e per appassionati e collezionisti di maschere da tutto il mondo. Un mestiere che ha nelle proprie mani fin da bambino: «Mio padre Ruggero fu il primo artigiano a realizzare queste maschere su commissione – spiega l’artigiano – A partire dagli anni ’50, la figura del Mamuthones fu scoperta al di fuori di Mamoiada attraverso le prime foto e qualche filmato e iniziò a crescere l’interesse nei confronti di questo rituale, anche grazie al ruolo di uno dei capostipiti più assidui nel portare avanti questa tradizione, Costantino Atzeni».

Una tradizione di famiglia, iniziata con il ritrovamento di una maschera antica

A quei tempi le maschere di legno si tramandavano ancora di padre in figlio e venivano perlopiù costruite dai pastori che prendevano parte alla sfilata, risultando scomode e molto pesanti e spesso causando escoriazioni a chi le indossava.
«Verso la metà degli anni ’60, mio padre lavorava come falegname – ricorda Daniele Mameli – Costruiva porte, cornici e cassapanche, ma era molto appassionato di maschere e aveva già iniziato a scolpirne alcune». È dalla passione di Ruggero Mameli che origina una scoperta fortuita: «Un giorno, un suo zio gli raccontò che in soffitta, all’interno di una scatola da scarpe, aveva trovato una vecchia maschera: era mal conservata, tarlata e gravemente lesionata dall’umidità. Altri cinque o sei anni in quelle condizioni e al suo posto avrebbero trovato un pugno di segatura. Per fortuna andò diversamente: avvenne così l’incontro tra mio padre e quella maschera, che cambiò le sorti di entrambi».

«Quando iniziò a restaurarla, mio padre rimase scioccato. Avendo appreso tecniche e arti della falegnameria, si accorse subito delle differenze con quelle che aveva visto fino a quel momento. La maschera apparteneva al nonno di sua zia ed era per questo databile alla prima metà dell’Ottocento. Era bella e leggera, realizzata in pero selvatico, ben rifinita. La parte interna era curata nei minimi dettagli e questo la rendeva comodissima da indossare».

Recuperando la maestria antica raccolta in quella maschera, Ruggero Mameli ne riprende la produzione artigianale, riscuotendo subito grande apprezzamento e dando avvio all’attività che oggi prosegue con Daniele«Esistono anche alcuni hobbisti, ma noi siamo ancora gli unici a portare avanti questa attività come professione. Ho quarant’anni, sono qui da venticinque. Già da studente, realizzavo piccole maschere che vendevo al bar dopo scuola». Daniele racconta un ricordo ancora precedente: «Quando ero piccolo non volevo vestirmi da Zorro, volevo essere un Mamuthones».

Mentre le maschere ascoltano mute, alle pareti sono sgorbie, scalpelli e altri strumenti di lavoro, in parte differenti da quando Daniele è subentrato al padre nella gestione dell’attività, ad attestare il passaggio di testimone. In una cornice appesa al muro, e in parte nascosta da alcune travi, un articolo di giornale ricorda il passato di Ruggero Mameli come pugile, con la conquista del titolo italiano “primi pugni” nella categoria superwelter a Riccione, nel 1972: un talento che oggi l’artigiano, in pensione ma sempre molto presente in bottega, sfoga di tanto in tanto contro un sacco da boxe che pende dal soffitto.

La maschera del Mamuthones prende forma al centro del laboratorio

A pochi metri, nel pezzo di legno al centro del tavolo da lavoro, si inizia a intravedere la sagoma di un volto.

Daniele ferma il racconto e assesta un colpo che rimbomba in tutto il laboratorio, delineando il profilo del naso del Mamuthones. Stiamo guardando il grezzo, la prima fase di una lavorazione che ha come base una profonda conoscenza dei legni: «Ne usiamo diversi, tra cui alcuni più pregiati e importanti. Lì vedi un tronco di ginepro, mentre quello è di ciliegio. A volte scegliamo legni duri come l’olivastro, che ci piace lasciare del suo colore per creare un connubio tra le nostre mani e la materia».

Tra i progetti intrapresi da Daniele, parallelamente alla realizzazione delle maschere classiche, figura anche il lavoro su legni caratterizzati da imperfezioni come nodi o fori: «La mia arte è la valorizzazione del difetto. In certi pezzi che mio papà avrebbe scartato, vedo l’unicità che dà alla maschera una sua bellezza, un valore aggiunto. A volte mi capita anche di partire con l’idea di fare una maschera classica aggiunge, indicando una maschera realizzata in ontano ma spesso è il legno che vuole farmi vedere qualcosa. Come diceva Michelangelo io tolgo solo l’eccesso, resta ciò che deve rimanere».

Quando il grezzo sarà concluso seguiranno lo svuotamento, la stagionatura in laboratorio di almeno due mesi e infine la levigatura e la verniciatura nera per le maschere dei Mamuthones, bianca per quelle degli Issohadores. 

Il carnevale di Mamoiada inizia il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate

Dopo essere state provate nella discrezione del laboratorio, le creazioni di Daniele saranno indossate ufficialmente il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, e copriranno i volti dei partecipanti alla sfilata attraverso il centro storico nel caso dei Mamuthones, vestiti di pelli ovine, abbigliamento in velluto, un copricapo, un fazzoletto in testa e un carico di 30 chili di campanacci fissati con cinghie di cuoio; per gli Issohadores, indossando camicia di lino, giubba rossa, calzoni bianchi e uno scialle in vita. 

Una festa dall’origine antica, che conserva ancora oggi un senso di oscuro mistero, con una processione lenta attraverso tutto il paese, caratterizzata da una precisa disposizione e da movimenti diversi per i Mamuthones, che procedono a piccoli passi cadenzati e ruotano il corpo a intervalli regolari per far risuonare tutti i campanacci in perfetta sincronia, e gli Issohadores, il cui incedere è misurato ai compagni, ma caratterizzato da slanci improvvisi e fulminei per gettare il proprio laccio sa soha e catturare la donna che hanno scelto tra la folla.

«Il Carnevale di Mamoiada è una festa erede dei più antichi riti pagani, che propiziavano i raccolti per il nuovo anno – spiega Daniele Mameli – Ha sempre lasciato di stucco gli studiosi che, mentre le origini di altre maschere sarde sono più evidenti, come nel caso dei Boes e Merdules di Ottana o dei Thurpos di Orotelli, quelle dei Mamuthones no. Non sono animali ma nemmeno uomini, eppure hanno tratti antropomorfi. Ma la figura davvero unica è quella dell’Issohadore, che durante la processione lancia il lazo e prende le donne in vita. Nonostante le maschere siano cupe, si tratta di un rituale di vita, per propiziare l’arrivo della bella stagione».

Le origini della tradizione, spiega Daniele, sono state tramandate soprattutto oralmente, il che rende difficile ricostruirle: «Un popolo invaso non scrive i suoi segreti. Ad oggi le supposizioni sono tante: tra queste, che i Mamuthones rappresentino i Mori arrivati a conquistare l’interno dell’isola, catturati dai Barbaricini e poi spogliati e vestiti con pelli di pecora per schernirli e con campane per evitare che scappino. Ma è un’ipotesi poco convincente – prosegue – Io vedo un legame maggiore con il mito di Persefone: figlia della dea dell’agricoltura Demetra, dopo il rapimento da parte di Ade risale una volta l’anno al regno dei vivi, dove la madre la festeggia facendo arrivare la bella stagione. A sfilare sono dodici Mamuthones e otto Issohadores, come i mesi dell’anno e i cicli agrari di semina e raccolto. E poi aggiunge, versando da una grande botte un bicchiere di Cannonau Persefone è anche la madre di Bacco, dio dell’estasi, legato al mito del bere».

«Sono nato squadrato per fare il Mamuthones», afferma Costantino Atzeni nel 1977, durante le riprese per il documentario Riso Sardonico di Louis Van Gasteren. Daniele è invece un Issohadores: la maschera che usa quando sfila, scolpita da suo padre, è quella a cui è più affezionato tra tutte quelle passate tra le sue mani. «È una componente importante: se crediamo alla teoria del rito pagano, dell’immedesimarsi in qualcosa di divino, durante la sfilata non posso essere riconoscibile agli occhi dei compaesani. In quel momento io non sono Daniele Mameli, sono un Issohadore».

Dietro la maschera, non c’è un volto da scoprire”: è una frase dell’antropologo sardo Bachisio Bandinu, tratta dal libro La maschera, la donna, lo specchio, che ho ascoltato mentre guardavo il video introduttivo alla visita al Museo della Maschera Mediterranea di Mamoiada, che si trova non lontano dal laboratorio di Daniele e che propone un racconto comparato delle tradizioni carnevalesche del Mediterraneo, esponendo inoltre gli esemplari di diverse tra le maschere in cui, come umanità, ci siamo trasfigurati.

Fa tornare in mente la frase con cui Daniele ha accompagnato sui social la foto di una delle sue più recenti maschere: “Anche se non mi rispondi, io ti parlo”.